La fine dell’anno arriva puntuale, come un rito antico che l’umanità ripete da sempre. Cambiano i calendari, cambiano le abitudini, ma resta immutato il bisogno di fermarsi un momento e fare un bilancio. Non quello economico, che trova sempre una giustificazione o un rinvio, ma quello più serio e meno consolante: il bilancio della coscienza.
Il vero interrogativo non è quanto abbiamo guadagnato, ma come abbiamo vissuto. Se abbiamo ascoltato abbastanza, se abbiamo avuto il coraggio di fare ciò che era giusto anche quando era scomodo, se abbiamo voltato lo sguardo dall’altra parte per quieto vivere. A volte non si tratta di grandi errori, ma di piccole omissioni: una parola non detta, un’ingiustizia tollerata, un silenzio scelto per comodità più che per saggezza.
La coscienza, quando è viva, non chiede perfezione. Chiede onestà. Riconoscere che si poteva fare di più non è un atto di autocommiserazione, ma il primo passo per cambiare direzione. Il nuovo anno, in fondo, non è una promessa automatica di miglioramento: è un banco di lavoro. Offre la possibilità di riparare, quando si può, e di non ripetere, quando non si può più rimediare.
In questo bilancio non possono restare fuori gli altri, soprattutto quelli che la festa non la sentono. Il Capodanno, per molti, non è una tavola imbandita ma una stanza fredda, una solitudine che pesa più del silenzio, una povertà che non conosce calendari. Chiedersi se abbiamo la coscienza a posto significa anche domandarsi quanto siamo stati capaci di accorgerci dei fragili, di chi vive ai margini, di chi non ha protezioni né visibilità.
E poi c’è una domanda che riguarda tutti, come individui e come società: come è possibile che, nel nostro tempo, la guerra venga ancora considerata un’opzione? In un mondo che si dice civile, la guerra non dovrebbe avere più alcun senso. È il fallimento più evidente della coscienza collettiva, la dimostrazione che non abbiamo imparato abbastanza dalla storia, nonostante la storia continui ostinatamente a ripetersi. A pagare il prezzo delle guerre sono sempre gli stessi: i poveri, i fragili, gli innocenti. Anche questo dovrebbe entrare nel nostro bilancio di fine anno, se non vogliamo che sia ipocrita.
Lo stesso criterio di responsabilità vale per chi non ha voce. Il rispetto per gli animali non è una moda né una sensibilità accessoria: è un indicatore preciso del nostro livello di civiltà. E proprio il Capodanno è uno dei momenti in cui questa civiltà viene più facilmente dimenticata.
I botti, i fuochi d’artificio, gli scoppi assordanti vengono spesso giustificati come tradizione o come espressione di festa. Ma ogni tradizione, se provoca sofferenza inutile, merita almeno di essere ripensata. Per molti animali – e per i cani in particolare – quella che per l’uomo è una notte di celebrazione diventa un incubo fatto di panico, disorientamento, fughe e, talvolta, conseguenze tragiche.
Rinunciare ai botti non significa rinunciare alla gioia. Significa scegliere una gioia che non passi sopra la paura altrui. È un gesto piccolo solo in apparenza, perché sono spesso i piccoli gesti a raccontare meglio chi siamo davvero.
Forse il vero augurio per il nuovo anno non è “fare di più”, ma “fare meglio”. Con più attenzione, più rispetto, più coscienza. Entrare nell’anno nuovo senza fragore inutile, con uno sguardo più vigile verso i fragili – umani e animali – sarebbe già un buon inizio. Per noi. E per chi, accanto o lontano, non ha la possibilità di difendersi dal rumore, dalla violenza o dall’indifferenza.
Marina Bortolani



