“Signore Gesù, dammi di essere sacerdote dal sorriso buono, dal cuore generoso, dall’animo grande per ricevere nel mio seno le miserie dell’uomo. Signore Gesù, dammi di essere prete, focosamente prete”.
In questa citazione dal suo diario può essere racchiusa l’intera esistenza di don Giuseppe Iemmi, come era e come le Comunità di Felina e Montecchio Emilia lo ricordano.

Per lunghi anni si è faticato a veder affermata la verità sulla sua uccisione, peraltro tanto semplice quanto drammatica.

Venticinque giorni prima della fine della guerra, la domenica di Pasqua del 1° aprile 1945, dall’Altare aveva portato all’attenzione di tutti quanto fossero ingiuste le uccisioni, soprattutto quelle perpetrate per vendetta personale o per odio di parte. «Non siate figli di Caino», aveva detto, usando parole del vescovo Brettoni. Il riferimento era chiaro: erano appena stati uccisi due padri di famiglia di Felina, per nulla compromessi con il fascismo benché, per necessità di lavoro, dovessero averne la tessera. Uccisori partigiani «con la stella rossa sul berretto», come ricorda in una sua testimonianza il figlio d’uno di essi, allora adolescente.
Don Giuseppe sapeva bene che quel richiamo poteva costargli la vita. Glielo avevano ricordato le mamme felinesi al termine della messa. Ma riteneva anche che suo dovere inderogabile di sacerdote fosse quello di richiamare il comandamento di non uccidere. «Se mi uccideranno – rispose – andrò in paradiso suonando il mandolino», il suo strumento musicale che, fin da bimbo, a Montecchio, aveva imparato a suonare.

Il giorno 19, ingannandolo con la scusa che il Comando aveva bisogno di lui, due partigiani di pianura lo prelevarono e lo portarono sulla Fòsola, il monte vicino alla chiesa parrocchiale, già sede di altre uccisioni. E qui, dopo torture fisiche e psicologiche, lo uccisero con una raffica di mitra, correndo poi subito a nascondersi. «Era una spia», cercarono di giustificarsi, secondo il loro usuale metodo dell’uccisione “morale” dopo quella fisica.
Un’accusa già allora ampiamente smentita da un documento del Comando del III Battaglione della 26a Brigata Garibaldi. Mai creduta né a Felina né a Montecchio dove, anzi, il 27 giugno 1955 la parrocchia gli dedicò la appena eretta Casa della Carità, definendo “santa” la sua memoria e ricordando lui come «vittima innocente» della «violenza dei nemici di Cristo».

Da qualche anno, in concomitanza con la pubblicazione della seconda edizione della sua biografia, don Giuseppe ha una via a lui intitolata a Montecchio Emilia e ora ci stiamo avvicinando a un gradino ben più importante. Nei giorni scorsi è corsa voce sicura che la Diocesi intenda avviare la “causa” (cioè la procedura canonica) per giungere al riconoscimento della sua uccisione in odio alla Fede e quindi alla sua possibile beatificazione. Ovviamente il percorso sarà lungo e solo alla fine di disporrà dell’esito. Ma si sa, ogni viaggio, anche il più lungo, parte sempre con il primo passo.

Eugenio Pattacini