Il 21 marzo è stata celebrata la Giornata nazionale contro le mafie, una scelta simbolica nel primo giorno di primavera spiegata da Don Luigi Ciotti “per dare il senso di un impegno di lungo periodo”.
Al contempo quest’anno si celebra anche un’importante data: il decimo anniversario del maxiprocesso Aemilia. Era il 28 gennaio 2015 quando ebbe inizio ciò che sarebbe stato destinato a diventare il più grande processo contro le mafie nel Nord Italia: all’alba furono arrestate 117 persone in tutta l’Emilia-Romagna, svegliati da sirene, volanti ed elicotteri. Reggio Emilia, la mia amata città, balzò poco dopo alle cronache nazionali e internazionali, come epicentro del radicamento della ‘Ndrangheta nel centro-nord Italia.
Si radicò e si sviluppò nel silenzio di (quasi) tutti. Imprenditori, politici e cattolici benpensanti non si erano accorti di nulla.
Dieci anni dopo il Procuratore Capo Calogero Paci, ha illustrato un’amara verità: la criminalità organizzata è di nuovo presente nel reggiano, ha solo cambiato vertici: “l trend recente a cui stiamo assistendo è quello di un declino della cosca Grande Aracri e una presa di posizione degli Arabia, è normale questo avvicendamento quando un clan viene duramente colpito dalle inchieste e l’altro riesce a scalare le posizioni di comando, tutto ciò è avvenuto senza grossi traumi, e si lascia spazio a chi ha subìto meno, c’è una certa ciclicità”.
Sentito in Commissione Antimafia, Paci mesi spiegò con chiarezza la trasformazione della mafia: “Si è trasformata, non ha più una modalità operativa di tipo militare, perchè si manifesta con modalità diverse che riguardano la gestione delle attività economiche in territori dove la ricchezza consente di diversificare gli investimenti. C’è una domanda a livello nazionale di gestione di attività economiche in nero per cui molti imprenditori, anche noti brand nazionali, si rivolgono a queste organizzazioni di Reggio Emilia per acquistare pacchetti di false fatture e fallimenti pilotati, architettati in modi ingegnosi, per gli scopi più vari: risanare i bilanci, poterli prospettare alle banche in modo apparentemente satisfattivo, usare le false fatture per avere crediti inesistenti ed evadere l’Iva”.
La lotta alla mafia è spesso presentata come una battaglia di legalità, giustizia e coraggio. Tuttavia, al di là delle parole altisonanti, esiste un nemico invisibile che mina l’efficacia di questa guerra: l’ipocrisia. Un fenomeno diffuso e radicato che, anziché contrastare la criminalità organizzata, spesso la alimenta indirettamente.
Le istituzioni rappresentano il primo fronte della lotta alla mafia, eppure, troppo spesso, mostrano un volto ambiguo. Se da un lato si promuovono leggi, si celebrano arresti eccellenti e si condannano pubblicamente le organizzazioni mafiose, dall’altro non mancano episodi di collusione e connivenza tra mafia e politica. Appalti truccati, finanziamenti illeciti e favori reciproci sono solo alcune delle dinamiche che dimostrano come certi ambienti istituzionali si rivelino complici di ciò che dicono di combattere.
L’antimafia è diventata, negli anni, anche un marchio di riconoscimento. Associazioni, convegni, manifestazioni e slogan popolano il dibattito pubblico, ma quante di queste iniziative sono veramente efficaci? Spesso l’antimafia viene strumentalizzata per fini politici o di prestigio personale, trasformandosi in una vetrina di buone intenzioni più che in una reale strategia di contrasto. Celebrare la memoria delle vittime di mafia è essenziale, ma la commemorazione non può sostituire l’azione concreta.
Un’altra forma di ipocrisia si annida nella società civile, dove, nonostante l’indignazione di facciata, molte persone continuano a tollerare la mafia per convenienza o paura. Il fenomeno del pizzo, ad esempio, sopravvive non solo per la violenza dei mafiosi, ma anche perché molte aziende scelgono di pagarlo piuttosto che denunciare. L’omertà, lungi dall’essere un retaggio del passato, rimane un elemento chiave che permette alla mafia di prosperare.

Per sconfiggere la mafia non bastano dichiarazioni solenni, arresti spettacolari o manifestazioni pubbliche. È necessaria una coerenza totale tra parole e azioni. Serve una politica realmente libera da infiltrazioni mafiose, istituzioni che non chiudano un occhio per convenienza, e una società civile capace di ribellarsi non solo con le parole, ma con i fatti. Finché l’ipocrisia sarà parte integrante di questa lotta, la mafia continuerà a trovare terreno fertile per sopravvivere e reinventarsi.
Marina Bortolani (Avvocato, Direttore di Reggio Focus)