Le opere dell’artista reggiano Maurizio Romani, noto pittore a livello internazionale, sono le protagoniste di una nuova prestigiosa mostra in Abruzzo, a L’Aquila, inaugurata sabato 7 settembre a Palazzo dell’Emiciclo. “Abissi dell’anima, viaggi nella follia e nell’oscurità è il titolo della mostra.
Filo conduttore, il tema della malattia mentale. Un tema particolarmente caro a Romani che da alcuni anni tiene un corso di pittura come servizio di volontariato a favore di chi versa in situazione di fragilità a seguito di problemi psichiatrici “In un rapporto che arricchisce corsisti e insegnante”, aveva evidenziato lo stesso artista un anno fa, intervistato da Reggio Focus (leggi qui l’intervista).
Di seguito, pubblichiamo la prefazione della psichiatra Dott.ssa Marilena Apuzzo al catalogo della mostra d’arte di Maurizio Romani, curata da Rosalba Rossi.
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La follia è la pericolosa devianza dalla normalità o la “sorella sfortunata della poesia” (E. Borgna)? È l’altro volto della ragione o il rifiuto del volto dell’altro?
È diversità o è terrore della diversità?
Benché il manto protettivo della ragione ci spinga a comprenderla per semplice differenza dalla normalità, accade che, quando ci addentriamo nei suoi intricati labirinti, tentiamo di coglierne i dettagli e di distinguere la follia dall’eccentricità, dalle scelte audaci, dagli slanci dell’immaginazione, i suoi confini diventano sempre più sfumati. “L’intima natura delle cose ama nascondersi”, direbbe Eraclito.

In quanto enigma misterioso e fuori norma, la follia ha vestito abiti diversi a seconda delle epoche e delle suggestioni culturali: ora ammantata di elementi esoterici o divini, ora perseguitata come complice di stregonerie, ora manipolata per giochi di potere, ora strappata dal cuore pulsante delle città e rinchiusa nelle viscere dell’istituzione perché giudicata aliena rispetto a un mondo di presunti sani di mente. E poi, eccola di nuovo accolta come parte integrante del grande affresco umano, testimonianza degli infiniti orizzonti del dolore e delle sue fiammate laceranti, in quelle esperienze psicotiche e nevrotiche che non possono essere analizzate e decifrate se non immedesimandosi negli abissi dell’interiorità.

Michel Foucault ha dedicato a questo tema l’opera “Storia della follia nell’età classica” (1961), ove la follia non è solo un’anomalia da isolare, ma un riflesso distorto delle tensioni sociali e delle strutture di potere, una fenomenologia dell’esperienza umana dove il caos e l’ordine si intrecciano in un balletto senza fine, rivelando angoli nascosti dell’esistenza umana in tutta la sua complessità.

Nel Medioevo la follia era considerata un marchio del divino, una maledizione o un’estasi, e il matto, con il suo ghigno sardonico, trovava un suo posto nei margini della società, accettato e temuto come una presenza arcana. Dal Rinascimento in poi, la follia si spoglia del suo alone mistico e diventa un disordine da confinare: i folli vengono reclusi anche sulle navi, diventano “naufraghi della ragione”, come nel dipinto di Hieronymus Bosch intitolato “La Nave dei Folli”. L’acqua e la navigazione hanno la funzione di rendere prigioniero il folle in una nave da cui non si evade. Egli è il “Passeggero” per eccellenza, cioè il prigioniero del “Passaggio”, non ha verità né patria se non in questa distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli.

Passano i secoli e la follia intreccia le sue radici con i filamenti del potere e le trame del controllo sociale, con l’istituzione dei manicomi ove follia e normalità si fronteggiano come in una commedia greca dai risvolti tragici.

Foucault ribadisce che il folle non era un alienato prima di essere rinchiuso, ma lo è diventato dopo. Dentro quelle mura, separato dal mondo, è stato confinato nel regno della sragione, emblema di una umanità spezzata e relegata ai margini del senso. La reclusione del folle è un atto di disumanità, non solo perché riguarda esseri umani, ma perché riguarda anche una parte della stessa natura umana.

Ed ecco che ingabbiare in una definizione univoca la forza dirompente, perturbante e scomoda per la società della follia, con i suoi mille volti, significa ricorrere a parole fragili e piene di crepe.

Partiamo dall’etimologia di “folle”: dal latino follis “sacco di cuoio, pallone”, “pallone vuoto”, in senso figurato “testa vuota”. Ma davvero possiamo definire “vuota” una mente abitata da molteplici, misteriose metafore da interpretare, elementi grezzi da decodificare, simboli oscuri da analizzare, attraverso i quali essere condotti all’origine del suo mondo interiore?

“Nell’impossibilità di vederci chiaro, almeno vediamo chiaramente l’oscurità” scriveva Freud. Nell’oscurità solo a un primo approccio dimora l’eclissi del senso e compare una zona cieca dove il linguaggio rimane senza parole, ma se riusciamo a non sfuggire al buio che ci avvolge, come nella cappella a Houston occupata dalle tele nere di Mark Rothko, ecco l’occhio abituarsi piano piano all’assenza di luce e riuscire a cogliere le sfumature di un mondo solo apparentemente invisibile.

E se l’essere umano può essere definito un dialogo con l’alterità, un’alterità interna, fatta di habitus, sentimenti ed emozioni e un’alterità esterna, allora la follia è una crisi del dialogo con quest’alterità, oppure è l’alterità che chiede di essere ascoltata.

Le appartiene la dimensione dell’incomunicabilità, legata al non detto oppure all’indicibile, che, in realtà, direbbe Pirandello, è appannaggio dell’intera condizione umana: “…come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!” (L. Pirandello).

La complessità e la profondità del sentire nella condizione di follia, nella sua accezione di “malattia mentale”, è ben descritta da Virginia Woolf, che ne è stata affetta per lunghi periodi: “l’incomprensibilità esercita un grosso potere su di noi quando siamo malati, più legittimamente forse di quanto gli eretti vogliano consentire. Quando si è sani il significato vìola il territorio del suono. La nostra intelligenza domina i sensi. Ma quando si è malati, cioè quando i poliziotti non sono in servizio, strisciamo sotto qualche oscura poesia di Mallarmé o di Donne, sotto qualche espressione latina o greca, e le parole liberano il loro profumo e distillano il loro aroma e poi, se infine afferriamo il significato, è tanto più ricco per il fatto di esserci arrivato prima per via dei sensi”.

È possibile risalire lungo l’impervio sentiero dell’incomprensibilità per giungere al nucleo della dimensione della follia? Non è possibile non comunicare, ci dice Paul Watslavick nel primo assioma della comunicazione umana, per cui il silenzio, i gesti, l’espressione del viso, la luce degli occhi danno forma all’indicibile, all’inesprimibile a parole.

Se intendiamo trasformare l’incontro con l’Altro non in una semplice conoscenza occasionale, ma in un dialogo aperto alla speranza, è fondamentale non permettere al deserto di significati di sconfiggerci e divorarci, ma andare oltre, superare le certezze irraggiungibili e i silenzi del dolore, per avvicinarci alle intime ragioni del cuore, anche di quello abitato dalla follia. “Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti. Non essere sordi a queste grida” è il pensiero di Simone Weil che mi torna in mente quando vedo le opere di Maurizio Romani, con i suoi volti che ci parlano in silenzio ed entrano in risonanza con il nostro sentire. Volti che pensano a squarciagola.

“E tacciono, perché sono abbattute
nelle loro menti le barriere,
e le ore in cui si potrebbe comprenderli
vengono e vanno.
Spesso a notte, affacciati alla finestra,
tutto ritrova a un tratto il giusto senso.
La loro mano poggia sul concreto
e il cuore è alto e vorrebbe pregare,
e gli occhi in pace guardano
nel recinto ormai calmo l’insperato
giardino tante volte sfigurato
che nel riverbero di mondi ignoti
continua a crescere e mai non si perde.”
Rainer Maria Rilke, “Nuove poesie”

Sono volti che esprimono un’umana sofferenza, con un dolore palpabile e, nel farlo, tentano di gettare un ponte tra due mondi che la malattia mentale ha reso apparentemente distanti.

Solo apparentemente, perché la disarmonia tra il soggetto e il proprio mondo è sempre possibile e appartiene a tutti noi. E quando il fuoco della follia divampa nel buio angosciante del dolore, è fondamentale volgere lo sguardo oltre le macerie della disperazione:

il tetto si è bruciato:
ora
posso vedere la luna.”
Mizuta Masahide (Haiku giapponese).

Questo è l’altro volto della follia.

La follia, infatti, è anche in grado di rendere palpitanti di vita i moti dell’anima e di partorire, dalla desertica solitudine, folgorazioni creative, con esperienze poetiche e artistiche di rara sensibilità, fuggite dal recinto rassicurante della ragione cartesiana e destinate, a volte, a risonanze eterne. È stato il destino di Virginia Woolf, Nietzsche, Vincent Van Gogh, Edvard Munch, Edgan Allan Poe, anche di Nelly Sachs e di Paul Celan, ebrei perseguitati dal regime nazista.

Follia come terreno fecondo dell’immaginazione creativa, almeno fino a certi limiti, oltre i quali ne diventa il leviatano che la divora.

Infinite rimangono le riflessioni sul tema della follia, delle sue innumerevoli metamorfosi e delle sue molteplici parabole semantiche e agoniche. Risuona ancora l’antica domanda posta da Michel Focault: “quale era dunque, ci si domanderà, questa strana delimitazione che è stata alla ribalta dal profondo Medioevo sino al ventesimo secolo e forse oltre? Perché la cultura occidentale ha respinto dalla parte dei confini proprio ciò in cui avrebbe potuto benissimo riconoscersi, in cui di fatto si è essa stessa riconosciuta in modo obliquo? Perché ha affermato con chiarezza a partire dal XIX secolo, ma anche già dall’età classica, che la follia era la verità denudata dell’uomo, e tuttavia l’ha posta in uno spazio neutralizzato e pallido ove era come annullata?”.